Po, un documentario di Andrea Segre e Gian Antonio Stella

Dal 29 marzo nelle sale Po, il documentario sulla tragedia del Polesine

Arriva nelle sale cinematografiche dal 29 marzo il documentario sulla tragedia del Polesine

Il 14 Novembre 1951 a poche centinaia di metri dal ponte della ferrovia Padova-Bologna l’argine sinistro del Po  si spacca. La marea invade in pochi minuti le terre del Polesine, una delle regioni all’epoca più povere, più misere del Nord Italia, di tutta Italia, d’Europa. Vengono invase non solo le campagne, ma uno a uno tutti i paesi, fino alle città di Rovigo, Adria, Cavarzere. Decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono costretti alla fuga, lasciando tutto ciò che hanno in balìa delle acque fangose del grande fiume, di Po come lo chiamano tutti, senza articolo, senza altra declinazione, semplicemente e immensamente Po.Nel 1951 la RAI era solo radio, la TV non esisteva ancora. Per documentare la tragedia partono da Roma, da Bologna, da Venezia gli operatori della Settimana Incom, i cui materiali sono parte integrante dell’Archivio Luce, che con le loro cineprese in pellicola raccontano l’Italia nei cinegiornali proiettati ogni sera nelle sale del Paese appena entrato nell’euforia della ricostruzione post-bellica.

Sono immagini sconvolgenti: intere famiglie che scappano su zattere improvvisate, uomini e bestie intrappolate sui tetti delle case sommerse, un gigantesco lago che si estende per almeno 40km in larghezza e oltre 80 in lunghezza. La macchina dei soccorsi si attiva immediatamente, tutto l’esercito è mobilitato, gli anfibi della marina, nel cuore di un inverno nebbioso e umido, portano in salvo donne, bambini, anziani intabarrati nei pochi cenci di lana nera di una terra già ferita dalla miseria, dalla fame, dalle malattie di chi il miracolo della ricostruzione non lo vede proprio.

La gara di solidarietà è nazionale, si attiva il Governo e le forze politiche di maggioranza e opposizione, in una terra al confine tra il Veneto bianco e l’Emilia rossa, negli anni in cui la divisione del mondo era appena iniziata e ancora in bilico, soprattutto a Nord Est. Arrivano perfino aiuti sovietici e immediatamente rispondono in forza la DC di De Gasperi e i paesi dell’Alleanza Atlantica. Ma l’acqua non se ne va, rimane lì immobile, putrida, marcia. Le case si sbriciolano, i paesi scompaiono, ritornare a casa non è possibile: oltre 130.000 polesani sono costretti alla fuga, profughi veneti in tante regioni del Nord industriale e non solo. Mal visti, additati per la loro povertà, per il loro dialetto di campagna, per le loro mani spaccate dalla terra, i loro occhi segnati dalla fame. Vivono l’onta della loro tragedia, prima oggetti passivi di pietà mediatica e politica, e subito dopo nemici in casa, portatori di problemi e fantasmi da cui il Paese aveva deciso di doversi liberare. I profughi del grande fiume, tra loro centinaia di bambini, strappati alle famiglie durante la fuga e assegnati a ospedali e istituti religiosi ancora ottocenteschi nelle forme e nei modi. Un’epopea popolare che ha segnato la vita di migliaia di persone, per poi cadere nell’oblio tipico delle vergogne che preferiamo dimenticare.

Andrea Segre racconta il film

Il nostro film nasce dalla voglia di colmare quell’oblio e parte da due materiali cinematografici di rara bellezza: gli archivi in pellicola perfettamente conservati nell’Archivio Luce e i bambini polesani oggi ottantenni.

Ciò che ci ha colpiti viaggiando negli archivi e nelle case dei nostri protagonisti è quanto il ricordo sia ancora vivo, come quella alluvione rappresenti in realtà una memoria incancellabile, un passaggio di vita e di storia del Paese da cui è difficile prescindere, lo si può nascondere, ma è davvero sbagliato dimenticarlo. Ascoltando i ricordi dei vecchi bambini polesani e guardando le immagini degli archivi abbiamo vissuto un salto temporale che ha reso questi 70 anni così vicini, tangibili, presenti. Memorie che trovano forse la loro forza proprio nell’esser state derubricate, isolate. Certo in Polesine la memoria esiste ed è stata coltivata, grazie anche a grandi giornalisti, poeti, scrittori – Gian Antonio Cibotto primo tra tutti – ma nel resto d’Italia e d’Europa è stata anch’essa sommersa, come quelle terre. Poco frequentata, poco consumata è rimasta viva, diretta, sincera e ci ha avvolti, stupiti in un viaggio che va oltre, anzi si oppone alla retorica della celebrazione e che prova a trarre da questa storia di profughi veneti un insegnamento universale, necessario anche al nostro presente, al nostro futuro“.